9.7.10

 

Frammenti di vita quotidiana: Sderot, Israele


A Sderot, a meno di un chilometro dalla Striscia di Gaza e ad un’oretta di macchina da Tel Aviv o Gerusalemme, viene nostalgia del traffico, di quella spensierata frenesia quotidiana che si respira nella Vecchia Europa o nel Nuovo Continente. Il rumore snervante dei clacson e dei motorini con la marmitta scassata qui ha lasciato il passo ad un suono penetrante, improvviso, ogni volta imprevisto e imprevedibile. Un suono che inonda tutta la vallata e i territori circostanti, fa salire freddi brividi lungo la schiena. Preannuncia una pioggia di missili lanciati contro i civili impegnati a vivere, dormire, portare i figli a scuola, fare la spesa. Sderot è una piccola cittadina di emigranti, quasi tutti di religione ebraica, giunti in Israele alla ricerca di un luogo sicuro, molti provengono dall’ex Unione Sovietica e sono arrivati con l’ondata migratoria degli anni ’90. La loro vita ora è scandita dall’allarme rosso, il suono che riempie il Negev, lanciato dal sistema di rilevamento ‘Alba Rossa’. Lo stomaco si stringe in un pugno di nervi e istinto di sopravvivenza. Comincio a contare: [1] Migliaia di gambe e occhi corrono, si nascondono, cercano rifugio, migliaia di cuori battono all’unisono in un’ordinata fuga verso la vita. Il pericolo maggiore è aggirarsi per le strade in macchina, inutile dire che è difficile vedere biciclette, tricicli o pattini a rotelle in questo angolo di mondo. [2] L’attacco arriva improvviso. I missili non sono ‘intelligenti’, fanno parte di quello che, con una buona dose di cinismo, si potrebbe definire ‘artigianato locale’. Per lo più si tratta di kassam - tubi di ferro lunghi poco più di un metro, con un diametro di circa 10 cm e uno spessore di non più di 3 [3] cm, quattro ali saldate evidentemente a mano con una saldatrice comune, una di quelle per il bricolage va benissimo. La struttura non garantisce una stabilità di volo, non si può prevedere dove andranno a colpire, per cui vengono riempiti con tutto quello che si ha sottomano, chiodi, bulloni, ferraglia [4] molta sabbia e un po’ di polvere da sparo. Quando esplodono non colpiscono un bersaglio ma si sparpagliano in tanti frammenti in modo da ferire il numero maggiore di civili. Una donna con jeans, polo bianca, occhiali griffati e scarpe comode sta accompagnando un gruppo di bambini di diverse nazionalità [5] alla fermata dell’autobus. I kassam vengono lanciati principalmente la mattina, tanto per mantenere vivi quei frammenti di memoria di normalità. Il ricordo delle corse per arrivare in tempo a scuola o in ufficio riaffiora inevitabilmente alla mente. La fermata dell’autobus è un luogo sicuro, un rifugio [6] dove correre per ripararsi dalla pioggia di missili dopo aver sentito un potente tuono che scuote famiglie intere dal torpore del tran tran quotidiano. Il rischio è che uno di quei pezzi di ferraglia raggiunga un organo vitale [7] o magari non vitale, un occhio, una gamba, la milza. Meglio affrettarsi. Una rete di controllo capta i missili al momento del lancio e la sirena fa scattare gli oltre 20.000 abitanti della cittadina poco lontana da Gaza a qualunque ora del giorno e della notte. Comunque, [8] non c’è traffico. I bambini non parlano, sanno di cosa si tratta, non fanno domande, attraversano la strada. Non [9] comprendono bene ma conoscono quella plumbea sensazione di pericolo che appesantisce l’aria. E sanno che non c’è tempo per le domande e per i capricci. A pochi ma lunghissimi metri nel centro ricreativo, qualcosa di simile ad una bocciofila-bunker, il personale addetto ha già avviato al rifugio interno pressoché tutti gli [10] anziani. Molti di loro sono sopravvissuti alla Shoa, hanno una gran voglia di vivere. Troppo lontano, per lo meno dieci metri. Per il piccolo rifugio alla fermata dell’autobus non c’è problema, pochi passi ancora. Proprio qui a Sderot c’è uno dei centri più importanti per la cura dei traumi psicologici [11] causati dalla guerra e dal terrorismo. Gli esperti del centro aiutano anche altre realtà nel mondo, luoghi in cui genocidi e guerre hanno devastato la stabilità mentale delle vittime, o meglio di chi è sopravvissuto, magari al proprio figlio. Un pensiero alle persone care, agli amici, alla famiglia. Le [12] strade sono deserte l’allarme riempie il vuoto assordante della mancanza di rumori della quotidianità. La voglia di vivere si trasforma in disperato istinto di sopravvivenza. Nell’Ipod della ragazzina in attesa di entrare nel rifugio, le note rock melodiche Mabul Heavy - Rain (pioggia pesante) di Keren [13] Peles si scontrano con l’assordante suono dell’allarme rosso. La locandina del concerto troneggia nel diario rosa. ‘Appuntamento a Sderock, We’ll Rock you in the Red Zone’, c’è scritto in inglese. L’indirizzo non è riportato ma qui lo conoscono tutti, è nel club bunker. L’inconfondibile porticina verde [14] da cui si viene catapultati come Alice nel Paese delle Meraviglie nella scena sotterranea, underground, della cultura israeliana. Un posto tranquillo, completamente anti-missile, l’unica scocciatura è entrare e uscire dal locale. Bisogna organizzarsi in modo da non creare file all’esterno. ‘Domani sera [15] che mi metto?’ sembra pensare l’adolescente annoiata mentre la voce di Keren Peles si disperde. I missili si avvicinano, inesorabilmente pronti a colpire. La donna conta i bambini nel rifugio, ci sono tutti? Gli anziani sono abituati a mettersi in salvo, collaborano attivamente con il personale. Sedici [16] lunghissimi secondi tra il suono dell’allarme e l’arrivo della pioggia di kassam. L’esplosione scuote i nervi, riempiendo l’aria di proiettili fai-da-te, rabbia e odio. A volte seguono le urla strazianti e la piacevole sensazione di essere ancora vivi diventa senso di colpa per chi, forse, non c’è più.

©©Valentina Cosimati

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